L’eccellenza nell’era della città vetrina | vol.2

Lo Spazio Forma

Nel frattempo altri pezzi di città, prevalentemente di proprietà pubblica, attendono la scure della legge di stabilità, o meglio la sua declinazione a livello territoriale. Così un palazzo di proprietà ATM, società messa alle strette dai tagli drastici del Comune di Milano, diventa il secondo caso metropolitano scottante: la chiusura di Spazio Forma. La notizia è stata comunicata giovedì 17 Ottobre durante una conferenza stampa presso i ben noti locali in Piazza Tito Lucrezio Caro, da Roberto Koch, presidente di Fondazione Forma: la nuova sede diverrà l’Open Care in Via G.B. Piranesi 10. Nei nuovi locali verranno ospitati gli uffici, gli archivi affidati alla gestione della Fondazione, tra cui quello di Gianni Berengo Gardin, una libreria ed una sola parete dedicata all’esposizione di fotografie.

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L’arcinoto Spazio Forma è (presto utilizzeremo il passato) un luogo nel suo genere unico a livello nazionale: l’unico spazio dedicato interamente alla fotografia, l’arte dell’era della riproducibilità tecnica che da sempre soffre complessi d’inferiorità rispetto alle altre discipline artistiche ma che nel Novecento si è imposta come forma d’arte autonoma. Anche se in questa città se non sei un fotografo di moda ormai sei uno sfigato e se invece lo sei la precarietà non ti abbandonerà fino a che non entri quanto meno nel limbo delle star (non più di una ventina di posti a sedere).

Rispetto alla fotografia potremmo riempire decine e decine di pagine elettroniche per sviscerarne le criticità imposte dal’attualità e lo stato della situazione milanese a riguardo. Non partiremo per la tangente e ci limiteremo a raccontarvi l’episodio che ha portato alla chiusura dello Spazio Forma, che avverrà ad inizio gennaio e che è stata presentata da Roberto Koch, presidente di Fondazione Forma, in una conferenza stampa il 17 ottobre 2013. Dopo un serrato dialogo con l’amministrazione comunale, Fondazione Forma ha deciso di chiudere lo spazio di Piazza Tito Lucrezio Caro poiché non sussistevano le condizioni per andare avanti. Fondazione Forma ha chiesto all’amministrazione gli spazi in comodato d’uso gratuito chiedendo il riconoscimento della funzione pubblica dello spazio e del suo indiscusso valore culturale. Gli organizzatori della metropoli hanno risposto ricordando la forma privata della Fondazione Forma e di conseguenza il rifiuto della concessione gratuita degli spazi. Nel botta e risposta non viene resa nota una questione fondamentale: dopo Spazio Forma quale futuro per la palazzina di Piazza Tito? Essendo maturata da pochi giorni la rottura non è ancora chiaro, nel caso lo strappo non fosse ricucito, qual è il destino dello spazio, destino che in realtà determinerà la negatività o meno della risposta del Comune allo sfratto di fatto dello Spazio Forma. Nel senso che se fosse mantenuta la destinazione d’uso con un progetto qualitativamente competitivo ma di carattere totalmente pubblico l’assessore Del Corno ne uscirebbe da trionfatore. Al momento però niente sembra esser più lontano dalla realtà, nel taccuino della città di Expo2015 annoveriamo quindi la fine di un giovane ma autorevole spazio dedicato alla cultura. Alla faccia dell’eccellenza e della qualità, qua si sente odore di svendita.

La Milano di Expo 2015 è una città che sperpera risorse per il restyling urbano in vista del mega-evento, che concede i palazzi storici alle onnipotenti griffe della moda, importanti attrici di una trasformazione urbana in cui la profondità della cultura viene sottoposta alla superficie del tessuto degli Armani o dei D&G. O delle torri delle archistar. Una città che raziona i servizi sociali e che risponde solo alle esigenze dei costruttori e dello spettacolo. La soluzione non è semplice da trovare ma di certo la lagna isterica serve solo agli architetti della nuova organizzazione metropolitana. Ci sorprendono (in realtà forse non troppo) le parole del noto fotografo Maurizio Galimberti, Pluri(sovra)esposto al MOMA e nelle altre cattedrali dell’arte contemporanea, che in merito alla fine dello Spazio Forma commenta la notizia affermando (in sintesi) che Milano è una città che spende soldi in assistenzialismo sociale improduttivo e che farebbe meglio a spenderli in situazioni di maggior valore come lo Spazio Forma. Galimberti è evidentemente disinformato e dimostra di non conoscere i ben più cospicui tagli a servizi sociali, servizi per l’infanzia ed educazione approvati nell’ultimo bilancio comunale, ben più ingenti dell’affitto di Spazio Forma (il corrispettivo della richiesta della Fondazione Forma). Inoltre dimostra disprezzo per il precariato metropolitano e per il welfare che merita, essendo il principale produttore culturale e non di questa città. Un produttore a cui poco o nulla è stato sino ad ora riconosciuto ma che sta esplodendo in tutta la sua energia creativa che ha significato anche riappropriazione di spazio urbano, condivisione dei saperi ed autorganizzazione. Un produttore sempre più respinto dalla metropoli proprio a causa dell’assenza di quel welfare dal Galimba sprezzantemente definito “assistenzialismo”. In altre epoche questo nuovo soggetto sarebbe stato l’oggetto del lavoro di Gianni Berengo Gardin, fotografo che unisce all’abilità espressiva anche un certo background culturale. Background che manca evidentemente alle generazioni successive di fotografi-star, causa in parte della crisi degli istituti culturali del presente, certo messi all’angolo non solo dal malaffare e dall’egemonia delle politiche neoliberiste ma anche dallo scollamento fra l’arte e la società che da essa dovrebbe essere rappresentata e per cui dovrebbe essere di questa tutore. Speriamo comunque che le parole di Galimberti siano state travisate per cui attendiamo una sua smentita.

La fine (in qualche modo da evitare) di Spazio Forma è un brutto segnale per questa città ma pare evidente che oggi servano operazioni ben più importanti, numerose ed ambiziose dello spazio istituzionale per come viene oggi inteso. Contro Expo 2015 e contro la svendita del territorio che passa anche dalla fine degli spazi dedicati alla cultura esistono approcci differenti. Non abbiamo difficoltà alcuna nel riconoscere la nostra critica posta a sinistra, progressista in quanto tendente ad un miglioramento sociale tout court ed incline a difendere non la cultura in generale, non quell’oggetto che sta in bocca a personaggi come Sgarbi, Farinetti o il politicante di turno per cui questa è da valorizzare per fare turismo o PIL, non una corporazione di mestieranti bensì una cultura che abbia un rapporto denso con la società, i suoi desideri, le sue contraddizioni e la sua voglia di emergere nella sua complessità. Una cultura in grado naturalmente di ritagliarsi il proprio spazio nella metropoli, senza attendere concessioni dall’alto.

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