Città studi: una questione aperta, una proposta per continuare

 

Parigi, 1953
Intorno alle metà dell’800, durante il regno dell’imperatore Napoleone III, fu scelto come prefetto di Parigi il Barone Haussmann, uomo forte e deciso, descritto dalle cronache del tempo come intelligente, ambizioso e subdolo.
La trasformazione che il Barone impose a Parigi fu drastica. Adottò come nobile alibi la creazione di una nuova città, pulita e luminosa, capace di garantire, sul piano igienico e sanitario, condizioni minime di vivibilità per le masse di contadini che dalle campagne si riversavano nella capitale. In effetti la sua opera, sorretta da scrupolosità balistica, mirò alla completa distruzione di quel reticolo di vie e viuzze contorte del centro – famosa era la zona del mercato di Les Halles – che erano luoghi di epidemie ma soprattutto di rivolte.
Hausmann sventrò tutto. Trasformò l’urbanistica – se tale fu la sua competenza – in una scienza al servizio del potere, della forza e della repressione. I nuovi grandi viali dovevano essere percorribili da carri e cavalieri, e non dovevano offrire riparo dai colpi di cannone. I nuovi isolati di geometrica precisione trasformarono la Parigi di Hugo nella Città degli Eventi (oggi diremmo la città vetrina) e diedero impulso ad una innovativa dinamica speculativa, meglio nota come rendita.
I problemi veri rimasero irrisolti. I poveri rimasero irrimediabilmente poveri, i ricchi diventarono se possibile più ricchi, il potere ne approfittò per rinforzarsi.

Milano, Expo, 2015
La questione di Città Studi, e del tentativo ormai sempre più concreto di trasferimento delle facoltà scientifiche ad Expo, presenta alcune inquietanti analogie con quei tre decenni di storia di Parigi. Con la differenza che Milano non ha nessuna possibilità di diventare la Parigi del prossimo secolo.
Tutto trae origine dalla vicenda di Expo. Di cui in verità si è già scritto molto, e quindi vale la pena ripercorrere solo alcuni passaggi, i più significativi per i fatti di questi giorni.
Expo Milano 2015, forse caso unico nella storia contemporanea, nasce e si conclude senza aver sviluppato nulla riguardo il destino delle aree dopo il Grande Evento. Alla fine dello show, il 31 ottobre 2015, non esisteva, né sul piano politico, né su quello economico, né su quello urbanistico, un progetto riguardo l’uso delle aree. Non c’era un piano finanziario che si facesse carico della gestione dei debiti accumulati, non era definito il sistema di Governance per il percorso del “dopo Expo”.
L’unica cosa chiara a molti – ma non a tutti, in verità – era che il Commissario Straordinario sarebbe diventato Sindaco. Come in effetti è puntualmente avvenuto.
Finito l’Expo, alla città rimase in eredità, magicamente (in senso ironico!), una grande area infrastrutturata, ancora forte di un brand vincente ma in rapido deterioramento e dal futuro estremamente vago (e qui sia consentita ironia ad abundantiam).
Ed una montagna di debiti.
La causa di tutto quello che è accaduto da questo punto in poi la si può trovare nella ricerca, affannosa e scomposta, di come rimediare ai conti in passivo, vero lascito di Expo alla città.

L’idea del trasferimento
Nel 2015, e poi con maggior forza nel 2016, iniziò a farsi largo l’idea di trasferire nell’area di Expo le facoltà scientifiche attualmente in Città Studi. Probabilmente facendo sintesi fra un paio di vicende trasversali che, viste con il famose “senno del poi”, non potevano che condurre nel famoso fosso, per usare una figura retorica nota ai più.
Il primo punto consisteva nell’ipotizzare le facoltà scientifiche in simbiosi con il nuovo polo scientifico Human Technopole, nel frattempo piazzato in quello che era Palazzo Italia. Il centro di ricerca genovese, fortemente sponsorizzato dal passato governo, sembrava lanciato verso un ricco futuro, grazie ai finanziamenti ricevuti.
La seconda vicenda consisteva nell’aver finalmente individuato, dopo 2 gare andate a vuoto, il soggetto che si sarebbe occupato dello sviluppo della restante area di Expo. La gestione del masterplan era stata affidata a Landlease, gruppo australiano noto più per le varianti ai masterplan e per le previsioni di spesa sbagliate che per i successi, come raccontato con precisione da alcuni articoli circolati sul web.

Milano, Città Studi, 2016
Mentre attorno all’area Expo accadeva tutto ciò, dall’altro capo della città, a Città Studi, l’Università Statale, cioè le facoltà scientifiche, dalla fine del 2015 si sono trovate improvvisamente strette in una nuova trappola.
Da un lato infatti emergeva l’esigenza di ristrutturare ed ammodernare edifici ormai in palese difficoltà, sia per l’età di strutture ed impianti, sia per il bisogno di costante rinnovamento che il sistema universitario richiede.
Dall’altro lato era sempre più evidente l’inerzia, probabilmente voluta da C.d.A. e Rettore, che non si è opposta al decadimento sempre più rapido degli edifici di via Celoria.
Tutto questo accadeva mentre il Rettore iniziava la sua personale campagna elettorale.
Numerose voci, per lo più interne all’università, ci hanno raccontato di avanzamenti e promozioni di docenti e ricercatori gestiti in modo strumentale, garantendo finanziamenti ai dipartimenti “amici” e non risparmiando ostacoli a tutti coloro che osavano mettersi di mezzo. Una strategia antica, già vista, sempre vincente. Di cui purtroppo abbiamo l’evidenza ma non abbiamo le prove, come avrebbe detto Pasolini.

I comitati per Città Studi
Per fortuna nel 2016 nascevano i primi comitati, composti da cittadini residenti in zona e da studenti. Comitati di varia forma ed ispirazione, ma un comitato, come sempre, non può che essere il prodotto del territorio che lo ha generato. E cominciò così una battaglia giocata sui social e in alcuni incontri ed eventi pubblici, in cui vennero presentati studi, analisi e controanalisi, tutti solidamente concordi nel dimostrare che l’operazione di trasferimento non rispondeva ad alcuna esigenza di progresso o crescita, ma era solo una precisa scelta politica, sotto molti aspetti in contraddizione con le dichiarazioni di miglioramento dell’area. Due esempi per fare memoria: la riduzione delle aree a disposizione, con una contrazione di circa il 30% delle superfici a disposizione dell’Università, e l’estrema difficoltà per raggiungere l’area Expo con i mezzi pubblici. Un campus in definitiva più piccolo, isolato dalla città.

Le grandi trasformazioni
Tra il 2016 e il 2017 si sono consumate tuttavia molte altre vicende, che miravano a profonde trasformazioni della città, a partire da quella degli Scali Ferroviari, per ora chiusa con la firma lo scorso luglio dell’Accordo di Programma e con i successivi ricorsi al TAR presentati dai comitati. Si è aperta, almeno nominalmente, la questione delle Caserme. Sono iniziate due forti ed interessanti vicende/vertenze nell’ovest ribelle: il Trotto, grande area storica accanto a San Siro, e Piazza d’Armi, un parco ormai tornato naturale, entrato nelle mire della speculazione calcistica.
Il filo rosso che collega tutte questa vicende si chiama attacco alla città pubblica.
Scali, Caserme, Università, Aree verdi, sono preziose porzioni della città pubblica, quella che appartiene alla collettività, ai cittadini.
Contemporaneamente stiamo assistendo allo sviluppo sempre più feroce di quello strumento di governance oggi noto col nome di partnership – pubblico – privato. In cui in effetti il pubblico è completamento sussunto dal privato e abdica ad ogni funzione di indirizzo o regolazione.
La Milano versione Haussmann pare sotto l’effetto di una fastidiosa corrente, che favorisce la continua nascita di grattacieli (City Life, Isola, Garibaldi, …) e attacca con ostinazione gli spazi pubblici, la città condivisa, le porzioni di territorio ancora accessibili per coloro che non hanno voce o non hanno un reddito sufficiente.
Haussmann, se fosse vivo, si sentirebbe a casa.
La nuova Milano ha grandi spazi, freddi ed inospitali, ma perfetti per le armi del nuovo millennio: le telecamere. Il decoro urbano è diventato l’unico criterio ammesso per giudicare, programmare e decidere delle trasformazioni.
In questa corrente maligna finiscono sotto attacco il trasporto pubblico, la casa, il lavoro.
Merita una nota particolare il bilancio partecipato, sia nell’edizione elettorale del 2015 sia in quella rivista al ribasso del 2017. Dobbiamo convincerci che si tratta di una vera e propria “fake policy”. Si configura infatti come vero e proprio strumento di governance, un modo nemmeno troppo raffinato per fornire un paravento democratico all’amministrazione ed ai numerosi entusiasti di queste pratiche di tipo teatrale.

Il diritto alla città: una opposizione radicale
I pochi che si oppongono al nuovo brand urbano lo fanno con l’intelligenza e la cultura. Qualità entrambe evidentemente sprecate, vista la pochezza dell’interlocutore, tanto da trovare poca o nessuna accoglienza. I muri di gomma di chi detiene anche piccole fette di potere sono perfetti nell’ostentare indifferenza alle critiche ed alle proposte alternative.
Il diritto alla città, categoria collettiva e attitudine mai così moderna, fa capolino con fatica accanto alle radici dei boschi verticali e al piano terra di palazzi sfavillanti.
Le parole d’ordine che ci piace ricordare e ripetere non sono molte: parlano di città pubblica, inclusione, progettazione partecipata, diritto alla non omologazione. David Harvey così descrive il diritto alla città: “rivendicare una forma di potere decisionale sui processi di urbanizzazione e sul modo in cui le nostre città sono costruite e ricostruite, agendo in modo diretto e radicale”. (D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città. 2012)

Il 6 marzo
Il 6 marzo la polizia ha caricato gli studenti ed i rappresentanti dei comitati che manifestavano contro la decisione di trasferimento in Expo. Le cariche sono partite a freddo, per far capire ai pericolosi rivoltosi, come sempre, a chi appartiene il monopolio della forza. Il voto del Senato Accademico si è potuto svolgere solo protetto e difeso dalla forza pubblica, arroccato in aule inaccessibili.
La contraddizione in piazza era evidente. Da un lato la polizia, armata come se avesse di fronte pericolosi terroristi, e dall’altro i numerosi studenti e i comitati, uniti nel reclamare una università, e soprattutto una città, più libera, accessibile ed inclusiva.
Abbiamo assistito invece ad una rappresentazione in cui dominavano rapporti asimmetrici. La forza espressa dalle parti era inversamente proporzionale alla consapevolezza: a grande brutalità corrispondeva zero coscienza, e all’obbedienza dei militari faceva eco la sapiente coscienza di studenti e comitati, forti del solo essere cittadini che reclamavano a voce il diritto ad agire in modo diretto e radicale.
Per chi come noi lavora da anni per costruire laboratori di dibattito e progettazione, nelle crepe del tessuto politico, fisico e sociale della “metropoli”, la verità – qualsiasi cosa essa significhi – è una cosa complicata. Non è e non può essere limitata alla minuscola frazione che ci viene raccontata dal Magnifico Rettore o dall’Assessore. L’occhio di bue in mano al manovratore illumina un piccolo cerchio, ma tutto il resto della scena rimane al buio. E nel buio sta nascosto tutto il marcio, tutto quello che non viene raccontato. La verità, scomoda per il potere e per chi servilmente amministra, è la città. Intera. Complessa. Viva.
La storia raccontata da studenti e comitati illumina tutta la scena, e descrive infinitamente meglio perchè deportare l’università sia un danno agli studenti, agli abitanti di Città Studi, all’intera città di Milano.

Una proposta comune
Alla luce di quanto fin qui raccontato, e di certo considerando nei modi dovuti i punti di contatto ma soprattutto le differenze che non vogliamo negare, immaginiamo cosa potrebbe essere la Milano di domani se alcune delle riflessioni fatte dai soggetti in ebollizione in queste settimane si saldassero. E iniziassero a sperimentare la condivisione di temi e riflessioni.
Immaginiamo se addirittura riuscissero a saldarsi anche le prassi, i momenti in cui ciascun soggetto, consapevole del filo rosso che lega tutte le vertenze, inizi anche a farsi carico – nei modi e nei tempi del possibile – dei problemi e delle passioni degli altri. Dell’intera città.
Si sta giocando in questi mesi una partita che città e istituzioni vorrebbero chiusa.
Noi diciamo invece che la partita è ancora aperta, e che città può essere convocata. Perché c’è già in atto un processo collettivo, disperso nei quartieri, di difesa dei beni comuni. Un percorso che riguarda studenti, collettivi, comitati, cittadini, abitanti di diverse parti della città, lavoratori etc etc.
Immaginiamo la forza che avrebbe questa cosa. La forza di una rivoluzione.

 

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