Appunti di Off Topic sull’opposizione al G7 dell’agricoltura

Il diritto alla città passa dal diritto al territorio (e viceversa).

Appunti di Off Topic sull’opposizione al G7 dell’agricoltura | 14/15.10.17

Il 14 e il 15 ottobre si è tenuto a Bergamo il G7 sull’agricoltura, il meeting internazionale tra i ministri dell’agricoltura delle 7 più grandi potenze economiche. Parallelamente, la Rete bergamasca di alternativa al G7 ha organizzato una due giorni nazionale di incontro e protesta di tutta l’opposizione sociale impegnata sui temi che trasversalmente riguardano l’agricoltura e l’alimentazione: reti contadine e di piccoli produttori, realtà sindacali di base, comitati, collettivi e reti di difesa territoriale, movimenti ecologisti. Anche noi siamo stati invitati a partecipare ai tavoli di lavoro tenutisi sabato 14, in particolare all’incontro sui territori, cercando di portare il nostro contributo in termini di esperienza e riflessioni, che riportiamo di seguito (in forma un pochino più estesa).
La città, un particolare tipo di territorio
La storia di Off Topic è intrecciata con quella della sua casa-base, Piano Terra, spazio occupato dell’ultima casa popolare di Isola, ex quartiere operaio oggi diventato uno dei centri del lusso nella nuova Milano post-Expo. Questo lo diciamo per introdurre il particolare tipo di territorio di cui, come collettivo e laboratorio, ci siamo occupati fin dall’inizio: la città. Potrebbe infatti sembrare strano vedere un collettivo metropolitano (nel senso di agente nella metropoli) intervenire a una tavola rotonda di soggetti attivi principalmente sui temi dell’agricoltura, della difesa di territori prevalentemente rurali e dei piccoli centri da grandi opere e speculazioni emergenziali. Eppure, crediamo siano due i principali motivi per cui troviamo coerente il nostro intervento in un contesto come questo:

  • Come dicevamo già negli anni della lotta No Expo, le grandi opere (come i mega eventi) hanno storicamente funzionato in questi anni come laboratori della governance privatistica ed emergenziale, con conseguenze dirette anche nei contesti urbani o non direttamente interessati dalla grande opera contestata (come insegna il decreto Sblocca Italia, nel suo capitolo sul project financing);
  • Una città riceve la propria identità anche dal contesto non urbano circostante: il modello energetico, così come quello alimentare, oltre che l’organizzazione periferica della logistica e il sistema infrastrutturale di trasporti, hanno infatti nell’extra urbano il loro luogo di sviluppo, dove la città resta al centro del reticolo. Questo vale in particolare per Milano.

Proprio per quest’ultima ragione non bisogna dimenticare che esattamente come le zone logistiche strategiche (per il passaggio di una ferrovia, di un’autostrada, di un inceneritore o di un gasdotto di SNAM) e i territori colpiti da sismi, terremoti, incendi e inondazioni, tenuti in stato di minorità ed emergenza permanente, anche le grandi città sono considerati merce da cui estrarre valore privato da fondi immobiliari e grandi imprese, con lo Stato in funzione subordinata, all’interno del sistema piramidale di appalti e subappalti.

Città-campagna e sfruttamento del territorio
Alcune note introduttive, nonché di ordine generale, riguardano la considerazione del territorio nello scenario formato dall’equilibrio città-campagna, inteso come contraddizione principale all’interno della quale si giocano le successive contrapposizioni specifiche: suolo antropizzato / non antropizzato, ecologicamente sostenibile /non sostenibile, luogo della produzione / riproduzione, e così via.
Non possiamo fare a meno di osservare come le trasformazioni del territorio (soprattutto quello mediopadano) osservate negli ultimi 30 – 40 anni, mutino l’equilibrio di una struttura territoriale da tempo consolidata, quella della città o dell’area industriale circondata da una campagna luogo della produzione al servizio della città.
Da un lato, infatti, si osserva la condensazione attorno ai principali nuclei urbani di tutte le nuove funzioni, soprattutto di quelle dotate di una certa rilevanza economica, che sono fattori estremamente dinamici anche al tempo della crisi, e che producono, allo stesso tempo, una proliferazione di periferie dense, degradate e senza servizi essenziali a livello di trasporti e cultura.

La campagna, l’altro polo dello squilibrio, rimane invece preda di due fenomeni collegati e connessi tra loro: da un lato le coltivazioni e gli allevamenti intensivi di rilevanza industriale, e dall’altro un diffuso sprawl post-industriale, che ci consegna l’infinita serie di capannoni osservabili lungo qualsiasi provinciale tra Torino e Venezia.
La maglia che tiene insieme, in modo molto fragile, questo territorio definitivamente lanciato verso la disgregazione fisica e sociale è costituito dalla rete, sempre più fitta, di linee ferroviarie ad Alta Velocità, autostrade il più delle volte inutili e raccordi di collegamento privi di progetto. Tentando di sintetizzare gli elementi più importanti che regolano questa dinamica complessa, si potrebbe dire che il territorio così configurato è effetto di una drastica mancanza di politica, comunque la si voglia considerare: quella classica di potere dall’alto, o quella che vede forme di
partecipazione dal basso a differenti intensità.
Il territorio subisce quindi la violenza di meccanismi economici che esigono in primis rapide remunerazioni (gli allevamenti intensivi o la logistica che vive di sfruttamento della mano d’opera) e producono una drammatica diminuzione della qualità della vita, sia nella città che diventa area metropolitana sia nei nuclei dispersi nello sprawl diffuso.
Ovviamente coloro che sono maggiormente colpiti da questa non-politica di strutturazione del territorio sono i soggetti più deboli, quelli su cui i meccanismi di esclusione hanno maggiormente efficacia: da coloro che sono espulsi dalla città che conta, e pagano in termini di ore di vita ogni giorno l’essere costretti alla figura del commuter, a coloro che sperimentano l’assenza di un welfare decente, inaccessibile sia nella città sia nella dispersione diffusa.
Un secondo ambito di riflessione parte dal presupposto che “territorio” significa anche rapporto con i prodotti agricoli ed i meccanismi della distribuzione.
La Grande Distribuzione ha rivestito, a partire dagli anni ’70, un ruolo fondamentale nella trasformazione del territorio.

Da un lato per l’impatto diretto che ha sulla produzione: l’esigenza delle grandi catene standardizzate di non subire la stagionalità dei prodotti, la ricerca del prodotto dalle caratteristiche visive ottimali (e non migliori per la salute o per il sapore) hanno determinato una profonda trasformazione del modo di produrre in agricoltura. L’esigenza primaria di avere prodotto con una ottima persistenza al banco – questo l’elemento fondamentale richiesto dai
grandi marchi – hanno radicalmente cambiato il modo di trattare e coltivare la campagna e la collina.
Inoltre la GDO è il soggetto economicamente fortissimo che sta definitivamente cambiando la forma della città (soprattutto nelle zone suburbane) e di conseguenza della mobilità. Sempre più spesso i giganteschi centri commerciali si mangiano letteralmente i residuali enormi spazi liberi alle porte delle città, e determinano la forma e le direzioni delle principali vie di comunicazione, sempre percorribili solo in auto.
Infine la GDO contiene un fortissimo elemento di sfruttamento del lavoro, che si esplica nelle forme di organizzazione dei fornitori, che si misura con i dipendenti delle grandi catene, che obbliga il consumatore ad una standardizzazione esaperata. Un approccio intelligente e partecipato alle politiche ed al conflitto territoriale non può tralasciare la forza distruttrice della grande distribuzione nella dinamica di trasformazione del suolo.

Un accenno in estrema sintesi al tema del clima, ed in particolare a quello della regolazione delle acque e delle precipitazioni. Sperimentiamo un territorio sotto il perenne pericolo imminente di inondazioni, che devastano e uccidono. La cura delle acque è un affare antico che si è completamente smarrito a scapito di edificazioni casuali e prive di progetto, di nuove strade che interrompono o addirittura coprono corsi d’acqua, di nessuna manutenzione agli alvei. La messa in sicurezza di un territorio passa attraverso la sistemazione del sistema idrico. Ma non solo: anche la questione dell’inquinamento e dell’avvelenamento è direttamente collegata a questo nuovo rapporto città-campagna, e delle molteplici strutture (autostradali, energetiche, commerciali, logistiche nel ciclo dei rifiuti – discariche e inceneritori) realizzate secondo la logica del territorio escludente.
Sul piano del metodo vale fare un accenno alle numerose esperienze di progettazione partecipata di luoghi e aree. Vogliamo dirlo chiaro e senza mezzi termini: le istituzioni non sono più né un riferimento né un interlocutore. L’esperienza ormai non singolare di progetti partecipati dal basso raccoglie quei saperi diffusi, non corporativi, capaci di dare risposte concrete e visioni non solo di breve periodo. Le istituzioni si sono ormai dimostrate non solo conniventi con la logica da capitalismo predatorio, in cui la gestione dei beni pubblici è ormai totalmente appaltata agli operatori privati, ma anche e soprattutto vuote: di competenze e di conoscenze sia per quanto riguarda l’ingegneria delle opere private cui danno il via libera, sia del territori che vanno a intaccare, con i loro tessuti sociali che vanno ad alterare. Le esperienze di progettazione partecipata, in campagna come in città, in questi anni si sono
tradotte in una grande operazione retorica di marketing politici al fine di ottenere consenso, portando tutt’al più a compromessi perdenti per gli abitanti dei territori interessati. E’ quindi su questo piano, nel rifiuto di una relazione perdente, che si sviluppa quel “diritto alla città” che potrebbe essere declinato in “diritto al territorio”.

Il conflitto possibile
Da qui ci colleghiamo all’ultimo punto, necessario, che vogliamo affrontare: la questione del conflitto e, legata a questo, ciò che Raul Zibechi (attivista uruguyano che a inizio anni 2000 osservò e partecipò alla rivolta aymara in Bolivia, in particolare nel quartiere urbano di El Alto) ha definito la sostituzione del vecchio “ethos sindacale” con un nuovo “ethos comunalista”. Allo stesso modo, anche Bookchin ha teorizzato che la Comune (differente dalla comunità, concetto che rischia di assumere caratteri escludenti e xenofobi) ha sostituito la classe sociale come terreno del conflitto. Ora, accennando brevemente a una discussione aperta e con la difficoltà di ammettere una posizione capace di affermare risolutamente il “superamento della classe”, però ci sembrano interessanti alcune intuizioni contenute in queste considerazioni.

  • La prima, riferita a Zibechi, è che le proteste indigene in America Latina sono a tutti gli effetti proteste sociali dove la difesa del territorio si intreccia con la questione dello sfruttamento lavorativo, a sua volta legata all’idea della proprietà sociale/collettiva contro la privatizzazione e l’esproprio del territorio da parte di multinazionali (e qui da noi potremmo dire: dei padroni della rendita fondiaria e dei fondi immobiliari, parte di un sottobosco di potere protagonista della trasformazione urbana ad esempio in una città come Milano); a loro volta legate alla questione ambientale e di giustizia alimentare. L’ethos sindacale di cui parla andrebbe piuttosto definito corporativo, ovvero legato unicamente alla difesa della propria professione, chiusa e distinta non solo dalle altre categorie lavorative ma anche e soprattutto dal territorio in cui si vive.
  • La seconda, invece, sviluppando Bookchin e arricchendolo con un po’ di Saskia Sassen e David Harvey, crediamo debba inserire l’ottica territoriale nella globalizzazione. Cosa significa? Che c’è una contrapposizione tra soggetti sociali che possiamo definire “de-territorializzati” (Luciano Gallino l’avrebbe chiamata la “classe capitalista transnazionale”), i padroni della finanza e dell’industria, che si appoggiano sulle classi dirigenti locali, ma che vivono il territorio (sia esso rurale o urbano) come merce (potremmo azzardare quasi fosse la quarta “merce fittizia” dopo le famose tre – terra, moneta, lavoro – di Karl Polanyi) da cui estrarre valore; e chi invece sul territorio lavora, si cura, si nutre, studia, si forma, cresce, si riproduce, costruisce e determina la propria vita: in ultima istanza, lotta. Perché, al di là della retorica “erasmus” e “ryanair” (si viaggia, si studia all’estero, si celebra la possibilità e anzi l’obbligo di vedere il mondo e andare dove ci pare), la maggioranza di noi resta sul proprio territorio e con le sue condizioni deve fare i conti. C’è un sottofondo sociale nel comunalismo, senza il quale, dal nostro punto di vista, questo perde significato.

Ovviamente nemmeno questi discorsi bastano a focalizzare chi siano i soggetti del conflitto. C’è una distribuzione talmente vasta delle disuguaglianze, ci sono linee di frattura talmente differenziate, che di strada da fare (sia a livello teorico che anche e soprattutto concreto, pratico) per capire chi sono gli sfruttati e per ridare nuova evidenza al significato della parola “sfruttamento” che oggi abbiamo perso (in primis, proprio gli sfruttati: penso ad esempio al
precariato). Nemmeno tutti i soggetti “territoriali” sono uguali tra loro e non per tutti vale probabilmente il termine di “sfruttato”, così come non tutte le vertenze contro grandi e piccole opere hanno il medesimo significato e si pongono nella stessa ottica. Ma i movimenti e i comitati territoriali non possono esimersi dal porsi il problema, se vogliono passare dalla resistenza all’attacco.

Da questo punto di vista crediamo che ci siano alcuni spunti, emersi dalle nostre esperienze ma anche dalle discussioni cui abbiamo assistito durante il No G7 del 14-15 ottobre:

  • il diritto alla città e al territorio passa attraverso la rivendicazione della partecipazione popolare alle decisioni strategiche territoriali, resa possibile in termini di “competenze” da almeno un ventennio di comitati di opposizione capaci di sviluppare loro osservatori autonomi e indipendenti.
  • inclusione ed esclusione sociale sono gli unici elementi di valutazione delle politiche territoriali
  • ricominciare a costruire città e geografie urbane in cui la socialità sia l’obiettivo, e non agglomerati che rispondono solo alla esigenza di massimizzazione del profitto dei detentori della rendita immobiliare: nel momento in cui si ricomincia a rifare la società, e non solo periferia emarginante, allora gli abitanti riprendono a incontrarsi e magari si organizzano per rivendicare e, perché no, lottare
  • quindi, a Milano, facilitare e organizzare il conflitto urbano che deve tornare a chiedere luoghi per vivere a misura d’uomo (in termini di casa, salute, lavoro, fruizione alla cultura, tempo libero) e in questo la lotta contro Expo è stata paradigmatica, ma lo stesso vale per le grandi trasformazioni in corso: dai navigli agli scali ferroviari, passando per Città Studi e l’operazione speculativa sull’ex ippodromo di San Siro.