Olimpiadi Milano-Cortina 2026: un lusso per pochi a spese di ambiente, territori e classi più povere

Le Olimpiadi Milano-Cortina 2026 sono scomparse o silenziate dal mainstream mediatico e dal dibattito pubblico, offuscate da guerre, crisi energetica ed economica, pandemia e, sul piano locale, dall’emergenza abitativa piuttosto che dalla vicenda stadio di San Siro. La macchina organizzativa e i cantieri delle opere accessorie vanno invece avanti, come avvenuto già durante il lockdown, accelerate dal Decreto Olimpiadi e con i soldi del PNRR come salvadanaio. Ne parleremo sabato 9 ad Abbiategrasso, ospiti dei Comitati NoTangenziale che si battono da anni contro una delle opere contenute anche nel dossier olimpico. Nel pezzo che segue proviamo a fare il punto sulla vicenda, per quanto sta accadendo sui territori interessati e per l’impatto economico e ambientale che i Giochi avranno.

Chiusi i Giochi Olimpici e Paralimpici di Pechino, con la consegna della bandiera a cinque cerchi ai sindaci di Milano e Cortina, è iniziato anche simbolicamente il countdown verso le Olimpiadi Invernali 2026. Proprio l’edizione cinese di recente conclusa ha evidenziato ancora una volta la divergenza tra emergenza climatica e crisi ambientale da un lato, e la necessità di far funzionare la macchina olimpica, costi quel che costi, inventandosi letteralmente la neve là dove non c’è (cosa peraltro già vista di recente anche nelle gare di sci a Cortina con la neve spostata a mezzo elicotteri dalle alte quote alle piste di gara) o costruendo nel nulla impianti e strutture destinate inevitabilmente alla rapida obsolescenza da inutilizzo, se non a fronte di costi crescenti per innevamento artificiale o manutenzione di impianti a basso utilizzo. Sono questi, tra gli altri, i motivi che hanno portato negli ultimi due decenni a un crescente rifiuto o rinuncia ad ospitare i giochi olimpici, anche quelli estivi, proprio perché insostenibili a livello di costi. 

Ricordiamo in breve questo aspetto.

Negli ultimi 50 anni il costo medio per organizzare le Olimpiadi è cresciuto oltre il 170%, e dal 1994 in poi nessuna edizione invernale ha visto un costo inferiore ai 2 miliardi di euro, al netto di eventuali opere e infrastrutture accessorie. Tutte le edizioni hanno visto costi finali superiori a quelli preventivati e ben in due casi, Atene 2004 e Torino 2006, questo ha avuto pesanti ripercussioni sull’indebitamento delle due città e, nel caso ateniese, anche sul debito pubblico greco. Ed infatti nel percorso che ha portato ad assegnare i giochi invernali 2026, tutte le località inizialmente candidate si sono ritirate, spesso su spinta di proteste, consultazioni popolari o forti divisioni del sistema politico rispetto all’opportunità di ospitarle. La stessa ultima città sfidante di Milano-Cortina, Stoccolma, in realtà non aveva il pieno appoggio del potere politico locale e nazionale. E anche le prossime edizioni dei giochi estivi, Parigi 2024 e Los Angeles 2028, sono state aggiudicate “a tavolino” in assenza di competitori e in entrambe le città è vivo e attivo un movimento di opposizione alla kermesse olimpica e alle derive gentrificative e sulle politiche securitarie e del decoro urbano che i Giochi stanno innestando. Cresce a livello globale il movimento “No Olympics Anywhere”, rete di città, comitati, associazioni che pongono in maniera radicale la questione se i Giochi Olimpici, così come li abbiamo conosciuti e come si sono sviluppati nell’era del capitalismo globale, siano ancora un’opzione sostenibile per il Pianeta e per le popolazioni dei territori che le ospitano.

Da evento sportivo planetario, i Giochi Olimpici sono diventati oggi un business, o meglio un bancomat con cui fare profitti (per imprese del settore, costruttori, speculatori immobiliari, e tutta la giostra che ruota attorno all’evento) a spese delle casse pubbliche (e solo in parte degli sponsor peraltro sempre con ritorni economici a loro volta). Un evento che è sempre più appannaggio delle grandi metropoli globali anche quando si parla di sport invernali, è stato così per Pechino, sarà così per Milano, a conferma che il marchio olimpico non ha valore in quanto alto momento sportivo, ma come brand su cui costruire investimenti immobiliari, speculazioni e rendite fondiarie, processi di predazione dei territori e di gentrificazione dei centri urbani, privatizzazione delle città.

Un evento che si regge sempre più su una narrazione della città ospitante in puro stile di marketing territoriale, dove lo sport non c’entra più nulla, basta reperire sul web e vedere l’improbabile spot trash di sindaci e presidenti di regione interessati dai Giochi 2026 lanciato nelle scorse settimane per capire di cosa parliamo. Oppure basta ascoltare le dichiarazioni di Sala, Fontana o Zaia, che fanno da sponda a quelle del presidente del CONI Malagò, per togliersi ogni dubbio che anche i giochi olimpici Milano-Cortina 2026 diventeranno occasione per l’ennesimo “assalto alla diligenza”, nella migliore tradizione italica di grandi eventi, grandi opere o gestione di grandi emergenze.

Dal modello Expo a quello Olimpico, un’insostenibile continuità

I primi a rendersi conto della sempre maggiore difficoltà con cui si “riesce a vendere” il pacchetto Olimpiadi sono proprio i vertici del Comitato Olimpico Internazionale. Pressati da un lato dall’esigenza di non far diventare i giochi “gestione esclusiva” di pochi paesi ricchi (come sta accadendo di fatto da decenni) mantenendo quell’appeal globale sull’evento prima garanzia di attrattività per sponsor e investitori privati. Dall’altro, dall’esigenza di adeguarsi a quanto sempre più spesso viene contestato al gigantismo olimpico, ossia la sua insostenibilità ambientale in tempi di crisi climatica planetaria, e quella sociale per costi e debiti che genera.

Non a caso le parole chiave con cui il C.I.O. ha voluto caratterizzare i giochi olimpici futuri, proprio a partire dall’edizione 2026, sono sostenibilità ambientale, flessibilità e reversibilità di opere e impianti; poco consumo di suolo; efficienza gestionale ed economica. Linee guida che dovrebbero essere recepite e seguite sia nella modalità di governance scelta per le Olimpiadi 2026, che per l’organizzazione e la gestione dell’evento e, soprattutto, nella valutazione di quanto fare o non fare, e come, a salvaguardia di un eccessivo impatto ambientale. Se prendiamo la situazione allo stato attuale, emergono subito evidenti le contraddizioni tra questi nobili principi (recepiti sia nella candidatura italiana che nel relativo masterplan presentato al C.I.O. ad assegnazione avvenuta) e la realtà dei fatti.

L’organizzazione delle Olimpiadi italiane è in capo a due Comuni (Milano e Cortina) due Regioni (Lombardia e Veneto) con l’aggiunta, e anche un ruolo marginale, delle Provincie Autonome di Trento e Bolzano, cui si aggiunge ovviamente il Governo per il tramite del CONI. Questi Enti Locali e di Governo fungono da Comitato Promotore tramite la Fondazione Milano-Cortina 2026, con il compito tra gli altri, di raccogliere contributi da privati e sponsorizzazioni. Infine c’è tutta la parte relativa alle infrastrutture, in capo a Infrastrutture MilanoCortina2026 SPA. Sia Sala che Malagò, preoccupati che due anni di lockdown mettano a repentaglio l’organizzazione dei Giochi, continuano a invocare governance ad hoc, poteri straordinari e commissariali. Il riferimento, esplicitato dallo stesso Sindaco di Milano, è il “modello Expo”. Tradotto: poteri speciali e gestione privatistica di denaro pubblico in capo ad un commissario straordinario, con deroghe alle procedure di appalto, alle norme in tema di valutazioni di impatto ambientale, ma anche ai diritti sindacali e del lavoro e alla trasparenza amministrativa. Un modello che a Milano conosciamo bene, anche per i certi benefici a vantaggio di pochi interessi privati pagati con miliardi di soldi pubblici, piuttosto che per le numerose inchieste andate in giudicato per tangenti, corruzione o infiltrazioni di imprese in violazione delle normative antimafia. Un modello che non ha impedito scempi ambientali, maggiori costi e oneri per le casse pubbliche.

Nel caso delle Olimpiadi 2026 le cifre iniziali erano di 900 mln a carico del C.I.O. e 300 mln come oneri delle località organizzatrici (Milano, Cortina, l’alta Valtellina e la Provincia di Trento). Come nel caso di Expo (e senza che mai poi ne rendesse conto), l’immancabile studio della Bocconi, parlava di un ritorno sugli investimenti triplicato, in soli 20/30 giorni di gare tra Olimpiadi e Paralimpiadi. Tutto questo senza considerare i costi di gestione e, soprattutto, quelli per le infrastrutture accessorie, moltiplicate in questo caso dalla scellerata decisione di disputare i giochi su un territorio vasto 22.000 kmq con sedi di gara, villaggi olimpici e impianti dislocati a distanze di centinaia di chilometri una dall’altra, raggiungibili solo con mezzi su gomma e anche in maniera non del tutto agevole. Un vero parco divertimenti per i signori nostrani del bitume e del cemento. I primi investimenti statali (meno di 70 mln di euro), le spese per la sicurezza (circa 415 mln di euro), i 50 mln accantonati dal Comune di Milano e i 200 mln di maggiori spese per l’organizzazione, fanno già lievitare i costi iniziali previsti, cui vanno aggiunte le prime stime per le infrastrutture sicuramente necessarie quantificate in circa 1,3 miliardi di euro, anche se nel corso del 2021 fonti governativa hanno paventato un investimento complessivo di 11 miliardi di euro per la realizzazione di 60 opere, dirottando parte dei fondi del PNRR. Alla faccia della sobrietà economica, del poco consumo di suolo, della sostenibilità ambientale.

Se prendiamo a riferimento gli ultimi due grandi eventi organizzati in Italia, le Olimpiadi Invernali Torino2006 ed Expo2015 a Milano, la prospettiva di una spirale crescente di costi e opere più o meno inutili non è così remota. Torino2006 finì con costi di 4 miliardi di euro, notevolmente maggiori del preventivato, lasciando in eredità deficit alle casse comunali, danni erariali, opere inutilizzate e abbandonate a sé stesse, tuttora al centro di procedimenti contabili e giudiziari nei confronti dei vertici della Fondazione che organizzò quell’edizione dei giochi. In quanto a opere accessorie inutili “sdoganate” dal grande evento, ricordiamo come Expo2015 abbia consentito la costruzione di tre nuove autostrade, TEEM, BreBeMi e Pedemontana, tuttora sottoutilizzate e, la Pedemontana, incomplete, che oltre ai costi iniziali continuano a essere matrice di debito per i bilanci pubblici.

Il Decreto Legge Olimpiadi, che ha definito i due organi di gestione della macchina organizzativa, la Fondazione, e per la realizzazione delle opere, la Infrastrutture SPA, Legge Olimpica”, ha dato mandato a quest’ultima di realizzare 41 opere, ripartite in 25 essenziali, 13 connesse e 3 di contesto. Tra queste, la superstrada Vigevano-Malpensa, per collegare all’aeroporto le note piste da sci della bassa…, più volte contestata e bloccata da comitati e ricorsi al TAR; il potenziamento del Terminal 2 di Malpensa, ricordiamo salvato nei bilanci da anni dai voli low-cost di EasyJet; il completamento della Pedemontana; il prolungamento della M4 di Milano, che doveva essere pronta per Expo e che non è ancora finita. Questo solo per citare alcune delle opere più controverse e inutili. Il 90% delle opere sono per la mobilità su gomma, nessun prolungamento ferroviario verso Cortina o Bormio, solo 88 mln di euro per la rete ferroviaria, destinati soprattutto per l’ammodernamento delle pessime linee regionali Milano-Tirano e Venezia-Calalzo, peraltro insufficienti a garantire un livello di servizio e a reggere l’impatto di un evento come le Olimpiadi e i 2 milioni di spettatori attesi che necessariamente dovranno spostarsi parecchio per seguire le gare su più sedi. Tra gli interventi già deliberati con il Decreto Olimpiadi, 22 sono in Lombardia e di questi 8 sono già stati commissariati (tangenziale di Sondrio, ammodernamento sulla Statale 36 Milano-Lecco-Sondrio, altri interventi in provincia di Lecco e Bergamo). A queste vanno aggiunti i cantieri in provincia di Belluno, molti dei quali, per un valore degli appalti di 150 mln di euro, avviati per i Mondiali di Sci di Cortina2021 e non ancora terminati. Ciliegina sulla torta, diciamo così, il TAV Brescia-Verona-Venezia, i cui cantieri partiti durante il lockdown costituiscono una ferita aperta per chilometri a devastare colline moreniche, vigneti, paesaggi pedemontani, sistemi delle acque. Uno scempio in piena regola che nessuna narrazione green tanto cara al Sindaco Sala potrà nascondere. Così come per quanta polvere Sala nasconda sotto il tappeto a colpi di greenwashing, utile alla propaganda e a vendere, in primis ai milanesi, l’opzione olimpica, sono già evidenti i danni ai territori e alla città pubblica che le opere olimpiche genereranno.

Uno zoom sui territori interessati

La scelta di Olimpiadi diffuse su più territori oltre al proliferare di infrastrutture genera inevitabilmente un aumento anche degli impianti e dei servizi previsti per la disputa dei Giochi Olimpici. Stante la volontà di coinvolgere più città, si potevano recuperare parte degli impianti usati per Torino2006, ma ha prevalso il campanilismo e, soprattutto, l’impossibilità di muovere la macchina del business e della speculazione recuperando impianti già esistenti. Idem dicasi per l’offerta di Innsbruck ad ospitare le gare di bob e slittino, evitando la costruzione di un inutile nuovo impianto, visto che quello di Cesana (TO) realizzato per il 2006 è in stato di totale abbandono. Ma anche questa offerta di buon senso è stata respinta, come fare profitti altrimenti? Come chiamare, se non speculazione, la spesa di 61 milioni per una nuova pista da bob, con altri impianti abbandonati, per una disciplina che consta poche decine di praticanti? Vediamo allora, con un rapido “volo d’uccello”, lo stato delle cose nelle quattro aree maggiormente coinvolte (ci sarebbero anche Verona, all’Arena si terrà la cerimonia di chiusura, e la valle Anterselva per il biathlon, ma nel primo caso è solo marketing territoriale, mentre nella valle altoatesina sono già ampiamente attrezzati per le gare previste avendo ospitato recentemente i mondiali di specialità).

TRENTINO: la provincia di Trento sarà interessata in due comprensori, la Val di Fiemme, dove si svolgeranno gare di fondo e salto dal trampolino, e Baselga di Pinè per il pattinaggio veloce. Nel masterplan presentato al C.I.O. si faceva riferimento alla realizzazione di un villaggio olimpico e di un media center, ma al momento di questi non si hanno notizie. Contestazioni e polemiche ha invece suscitato il progetto per il nuovo impianto per lo short track a Baselga, con una spesa prevista di 180 mln e la realizzazione di un impianto da 5000 posti in un paese che arriva a poco più di 8000 abitanti. Altra spesa certa i 35 mln necessari a costruire un nuovo stadio per il fondo a Tesero e per il rifacimento del trampolino di Predazzo, anche in questo ultimo caso, soldi per una disciplina che vede in Italia più trampolini che atleti.

ALTA VALTELLINA: in una valle che ha più volte dimostrato la propria fragilità idrogeologica, su tutte l’alluvione del 1987 ma anche in epoche recenti non sono mancati gravi eventi, le Olimpiadi 2026 stanno “togliendo il tappo” agli istinti predatori di albergatori, imprese legate al business dello sci e speculatori immobiliari. Si stimano in 200 mln di euro gli interventi complessivi tra infrastrutture e impianti. Tra Bormio e Livigno avranno luogo gare di sci e snowboard e nonostante l’abbondanza di piste, anche omologate per gare di Coppa del Mondo, proliferano i progetti e per nuove piste, con anche il possibile collegamento tra Livigno e Valdidentro e, quindi, con Bormio (addirittura fino a S. Caterina di Valfurva come vorrebbero gli operatori turistici locali). Verranno potenziati gli impianti di innevamento realizzando nuovi bacini artificiali per l’accumulo delle acque. La pressione speculativa nel frattempo cresce, con richieste per nuove volumetrie anche sopra i 1600 mt di quota. A questo si aggiungono le spinte per un ulteriore intervento sulla viabilità Tirano-Bormio (già in alcuni punti ci sono tre strade che corrono parallele) e la realizzazione della tangenziale di Bormio, facendo sparire ampie fette di aree verdi e agricole.

CORTINA D’AMPEZZO: la conca ampezzana e i territori circostanti, che ospiteranno le gare di sci alpino, slittino, bob e di hockey, stanno già testando la “sostenibilità” delle Olimpiadi2026, per l’impatto delle nuove piste da gara e delle opere (alcune tra quelle viabilistiche peraltro non ancora terminate) realizzate per i Mondiali di Sci dello scorso anno: il versante sottostante le Tofane, sfregiato, disboscato, cementificato, impermeabilizzato, per realizzare le piste di gara, i collegamenti di servizio e i nuovi sistemi di innevamento e relativi bacini artificiali di alimentazione. Un impatto pesante su paesaggio e ambiente, aggravato dalle opere stradali, in una vallata sempre più spesso vittima di gravi fenomeni di dissesto idrogeologico (su tutte la frana di Acquabona che incombe sulla Statale 51) e con un ambiente che sta ancora pagando le ferite subite nel 2018 con la tempesta Vaia. E questo rischia di essere solo un antipasto; il miraggio dei soldi olimpici sta scatenando richieste senza limiti per nuove volumetrie alberghiere, proposte inqualificabili, come quella di realizzare un mini scalo per voli privati ed elicotteri a Fiammes, dove c’era una vecchia pista militare (la proposta viene dalla Santanché, nota habitué di Cortina, e la dice lunga sul livello della classe politica nostrana) e una ridda di nuovi caroselli sciistici da realizzare collegando i comprensori adiacenti (Alleghe/Val Zoldana e Arabba/Val Badia) con nuovi impianti e relativo stravolgimento su paesaggio, versanti, boschi, sistema delle acque. Di sicuro verranno realizzati un tunnel per attraversare la località e raggiungere le zone di parcheggio e gli impianti di gara, le strutture di servizio (villaggio olimpico e media center) e, soprattutto, la controversa e contestata nuova pista di bob (a Cortina esiste già la pista abbandonata delle Olimpiadi del 1956), un impianto che costerà 61 mln di euro, come già spiegato più sopra inutile e che si sarebbe potuto evitare.

Proprio a Cortina, in virtù del fatto che i territori e le persone stanno già verificando quanto sia falso parlare di Olimpiadi green, sostenibili, a impatto zero sul consumo di suolo, nel corso del 2021 ci sono state le prime, e finora uniche, manifestazioni contro le opere previste per le Olimpiadi2026 e i comitati locali si stanno attivando con ogni mezzo per bloccare il nuovo impianto per il bob. Tratto comune di queste prime iniziative di lotta è stata la critica ad un modello “metropolitano” di sfruttamento della montagna, che anche le opere Olimpiche ripropongono al di là della retorica di facciata, laddove la crisi climatica e ambientale imporrebbero un nuovo concetto di turismo e un’opzione zero in termini di nuovi impianti e nuove opere ad alto impatto sul territorio e sull’integrità paesaggistica di luoghi unici. Le deroghe olimpiche, l’assenza di una valutazione ambientale strategica per le opere prevista, rischiano di essere letali per il fragile ambiente dolomitico, già pesantemente antropizzato e messo a valore anche sulla scia dell’attribuzione del marchio Unesco – Dolomity Heritage, che come tutte le operazioni di marketing territoriale, accelera anziché fermare le dinamiche di speculazione e il modello di economia turistica “di mercato”, la gentrificazione dei centri abitati più conosciuti con relativa crescita dei valori immobiliari, la disneyficazione dell’esperienza montana, che, in fondo, è un po’ anche quello che vuole suscitare il “sogno olimpico”.

MILANO: abbiamo lasciato per ultimo il capoluogo meneghino e città capofila delle Olimpiadi2026, perché in questo caso parlare di effetto olimpiadi e opere connesse significa, sostanzialmente, parlare di un nuovo episodio di quel processo al contempo di privatizzazione della città pubblica e di trasformazione della città in “eventificio” e terra di conquista per fondi finanziari e immobiliari, iniziato negli anni zero, accelerato e divenuto modello con Expo2015 e che ora si tenta di rilanciare e rigenerare con le Olimpiadi, anche per mettersi alle spalle, dal punto di vista dei poteri economici e politici, due anni di stop causa pandemia. Ed è proprio sul ruolo della città nella competizione globale tra metropoli, più che sulla quantità e qualità degli eventi sportivi olimpici che si svolgeranno, che gioca Milano, puntando più su simboli e retorica che sulla possibilità concreta di ospitare gare attrattive. Le Olimpiadi diventano quindi nuova occasione per rilanciare il “modello Milano”: attrazione di flussi finanziari e del turismo “ricco”, investimenti e speculazione immobiliare, privatizzazioni di aree ed edifici pubblici, eventi grandi e piccoli, richiamo di nuovi abitanti “affluent” e “upper class” per i nuovi quartieri di lusso. La scelta delle aree per le opere e gli impianti necessari risponde a queste logiche e sta già generando le prevedibili dinamiche. A Milano si svolgeranno, oltre alla cerimonia inaugurale a San Siro, le gare di pattinaggio (artistico e veloce), curling, hockey, oltre a necessitare del villaggio olimpico e di un media center. Quasi tutti i siti olimpici cittadini sono al centro di iter problematici, contestazioni, ricorsi.  A partire proprio dallo stadio Meazza di cui da mesi si discute dell’abbattimento per far posto al nuovo stadio di Milan e Inter, vicenda di cui abbiamo ampiamente trattato, e annesse volumetrie commerciali e ricettive. Al netto di come finirà la vicenda, due cose emergono chiare: la zona adiacente allo stadio è tra quelle a prevista valorizzazione nel prossimo decennio, ricomprendendo anche le volumetrie previste da Hines sull’adiacente ex trotto; è curioso che l’impianto scelto come simbolo per rappresentare la città ospitante e sede della cerimonia inaugurale, “morirà” proprio dopo quella cerimonia, almeno nelle previsioni di Milan e Inter con il beneplacito del Comune. Ancora più emblematica la vicenda dello Scalo Romana, dove sorgerà il Villaggio Olimpico: ex area demaniale, privatizzata e assegnata a general contractors come gli altri sei scali milanesi (in questo caso alla cordata Coima-Covivio-Fondazione Prada), garantirà dopo i Giochi enormi profitti agli operatori privati che l’hanno rilevata per cifre irrisorie dal pubblico; con l’aggravante che lo Scalo, nel frattempo in gran parte in disuso, si è nel tempo rinaturalizzato in maniera importante e che, di conseguenza, quella che viene venduta come operazione green che restituirà alla città verde, case e studentati, in realtà determina maggiore consumo di suolo. Non solo, ma la localizzazione semi periferica dello Scalo sta già generando forte crescita dei valori immobiliari nei quartieri adiacenti (quadrante sud-est della città), in particolare nel popolare Corvetto. Dinamiche accentuate dal fatto che altri due impianti previsti per le Olimpiadi verranno realizzati nei dintorni.

A San Donato Milanese, adiacente alla nuova sede di ENI, verrà realizzato un palazzo dello sport utilizzabile anche per l’hockey. A Santa Giulia verrà realizzato il PalaItalia, anche questo destinato agli sport su ghiaccio e che dopo le Olimpiadi sarà riconvertito ad arena per spettacoli e concerti. L’area, da oltre un decennio al centro di una delle più importanti riconversioni di ex area industriale della metropoli, è oggi di proprietà di Lendlease (lo stesso contractor che ha rilevato Arexpo) e presenta importanti problemi di bonifica, che hanno negli anni complicato il completamento del quartiere e che, nel caso in questione, sono state oggetto anche di trattativa con il Comune che ha portato ad un bonus volumetrico a favore di Lendlease in cambio della realizzazione del PalaItalia, vicenda questa oggetto anche di ricorso al TAR. I lavori del PalaItalia dovrebbero partire nel 2023, così come quelli di ristrutturazione del PalaSharp a Lampugnano, anche questo per le partite di hockey e gare di pattinaggio. Se aggiungiamo che anche il Forum di Assago verrà messo a disposizione, avremo quattro – si 4!?!! palazzetti per il ghiaccio (cui andrebbe aggiunto anche quello di Sesto San Giovanni), a che pro? Nessuna notizia al momento per quanto riguarda il media-center, ma non abbiamo dubbi che ancora una volta il Sindaco Sala riuscirà a stupirci.

Se non ora, quando?

Siamo realisti e non abbiamo difficoltà ad ammettere che l’opzione “no Olimpiadi” è fuori tempo massimo per quanto riguarda Milano-Cortina2026, ma questo non significa che dobbiamo assistere come semplici voci critiche a quanto succederà da qui al 2026. Sicuramente la dispersione su un territorio così vasto (e in parte già ampiamente compromesso da un punto di vista ambientale e paesaggistico) della macchina organizzativa e delle opere previste, attenua l’impatto complessivo percepito dagli abitanti di un singolo territorio. Ha così buon gioco il Sindaco Sala, autodefinitosi Sindaco Verde (sicuramente più abile di Fontana e Zaia nell’utilizzo della comunicazione), per costruire il consenso sui Giochi con una narrazione più simile a una favola che alla realtà, ma con il risultato di sterilizzare le critiche; soprattutto rispetto ai danni ambientali che, guarda caso, avvengono soprattutto lontano dalla metropoli, nelle valli alpine, nascosti e taciuti agli abitanti della metropoli e delle altre zone del Paese più popolate e che avrebbero potuto essere embrione di lotte e resistenza alla follia olimpica. Ecco perché sono importanti le manifestazioni cortinesi, a segnalare che contro la macchina olimpica si può e si deve fare qualcosa. Così come è importante che cresca e si sviluppi un movimento globale che metta in discussione lo stesso modello olimpico facendolo uscire dalle logiche del business per restituirlo a una dimensione dove siano al centro lo sport, la gara, la festa collettiva. Olimpiadi a impatto zero in linea con quanto l’emergenza ambientale e climatica del Pianeta rende attuale e non più differibile, senza consumo di suolo, senza costruire impianti inutili e cattedrali nel deserto, sfruttando e riutilizzando impianti e strutture esistenti. Uscire dal gigantismo dell’evento che deve movimentare miliardi di euro e milioni di persone, con tutti gli annessi e connessi che questo significa, perché non sono necessari alla competizione sportiva e non sono più sostenibili dal Pianeta e, verrebbe da dire, dal buonsenso.

L’ex MOI – Villaggio olimpico di Torino, abbandonato dopo il 2006 e divenuto rifugio per tanti abitanti della città tenuti ai margini ed esclusi dalla città – in primis migranti e profughi. Sgomberato nell’estate 2019 per fare spazio a un nuovo progetto di housing sociale voluto dal Comune.

Sul piano locale, invece, inteso come quello dei vari territori coinvolti, tre sono le direttrici su cui focalizzarsi per inceppare la macchina olimpica e ridurne impatto e conseguenze più deleterie. La prima riguarda gli ambiti montani. Va sicuramente evitata la situazione post-olimpiadi torinesi, con gli impianti costruiti e poi rivelatisi inutili. Questo vale sia per le strutture dedicate a sport di nicchia ma anche per piste, impianti e sistemi di innevamento per lo sci alpino. Gran parte di queste opere montane saranno senza futuro: inutilizzate per la scarsa popolazione sportiva delle discipline cui sono dedicate, inutilizzabili e obsolete per effetto del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici. Già oggi il 12% delle piste da sci sull’arco alpino sono a rischio sparizione perché sotto i 1800 mt di quota, limite minimo medio degli ultimi anni di una presenza stabile e cospicua di neve naturale (salvo annate eccezionali come il 2021). Ragione vorrebbe, non solo per le Olimpiadi, che si arrivasse all’opzione zero per nuovi comprensori, collegamenti, impianti di risalita; invece è un susseguirsi di progetti, proposte, richieste per offrire al turismo dello sci, piste e strutture di contorno sempre più luna park e sempre meno montagna. Un modello che crea danni enormi al sistema delle acque, deviate per realizzare tracciati di piste e sistemi di risalita, sfruttate per gli impianti di innevamento artificiale. Danni a cui vanno aggiunti quelli a boschi e suolo. Uno sport sempre più caro ed esclusivo (in questo ampiamente allineato alla metropoli meneghina), perché innevare costa, e anche perché la montagna modello Disney, richiede poi di ritrovare a Cortina o in altre località tutto quello che può offrire la metropoli, perché analoghe sono le dinamiche predatorie e il tipo di turismo cui si punta. Salvare quindi quanta più montagna possibile in vista delle Olimpiadi 2026, bloccando la costruzione di nuovi impianti e chiedendo che si utilizzi quanto già esistente, significa quindi non solo salvare ambiente e paesaggi da nocività e opere inutili, ma pure mettere in discussione un modello di turismo e di rapporto con la montagna, le sue genti, la sua natura, basato solo su logiche di profitto e di piena disponibilità di tutto basta che si paghi. Analogo discorso vale per le infrastrutture e le opere viabilistiche. Per quanto siano già stati stanziati fondi, molte delle opere che abbiamo elencato prima, sono un semplice regalo ai signori del bitume e del movimento terra, una contraddizione rispetto alla priorità di dover ridurre il consumo di combustibili fossili e dell’utilizzo dei mezzi privati. Bloccarle, evitarle, sostituirle con investimenti sui collegamenti pubblici e ferroviari verso le località olimpiche e annullare del tutto le infrastrutture che nulla c’entrano (vedi la Vigevano-Malpensa) è la partita per i territori e le popolazioni interessate che si giocherà nei prossimi 3-4 anni.

Spostando l’attenzione su Milano e mettendo da parte, solo per questo articolo, la vicenda stadio di San Siro, va sicuramente evitato che il quadrante sud-est della città venga trascinato in una dinamica di gentrificazione e sostituzione abitativa di cui, come dicevamo, si hanno già i primi segnali. Epicentro di queste dinamiche sono le aspettative non tanto legate alle Olimpiadi in sé, quanto alla destinazione successiva dello Scalo Romana e zone adiacenti, già oggi oggetto di interventi importanti a opera di Covivio, Fondazione Prada, Bocconi, Hines, Lendlease. I quartieri popolari del Corvetto e di Molise-Calvairate sono quelli che più di tutti rischiano di essere travolti anche per la forte presenza di residenti immigrati, precari, classi popolari e marginalità. Milano non ha bisogno di rivivere quanto accaduto all’Isola dopo la realizzazione dei grattacieli di Porta Nuova-Garibaldi, Milano ha bisogno di salvare i suoi quartieri popolari e relative case pubbliche, Milano ha bisogno di ritrovare la sua natura pubblica di città e una direttrice di sviluppo di sé stessa in tal senso. E allora, se non si possono bloccare le Olimpiadi, si può però provare a inceppare le dinamiche speculative che generano, rispondendo allo stesso tempo all’emergenza abitativa. Questo potrebbe essere l’obiettivo di una lotta che rivendichi la destinazione pubblica e popolare del villaggio olimpico, anziché la sua riconversione a residenze (certo con un po’ di elemosina di housing sociale) ad arricchire le tasche di Manfredi Catella e Coima.

Una immagine iconica: il villaggio olimpico di Atene 2004, abbandonato da anni dopo aver contribuito all’esplosione del debito pubblico nazionale greco e comunale della Municipalità ateniese, divenuto uno dei tanti campi profughi informali sorti spontaneamente da parte delle migliaia di migranti lasciati ai margini di una metropoli che nega diritti e cura a tutti i suoi abitanti.

Infine, un ultimo, ancora più grave pericolo. Dopo due anni di pandemia il Comune di Milano si ritrova con un buco di bilancio di 250 milioni. Non è questa la sede per entrare nei dettagli, ma ai minori introiti dai dividendi di SEA (società che gestisce gli aeroporti milanesi) per il calo di flussi di viaggiatori, si sono sommati i maggiori costi legati alla crisi energetica e delle materie prime esplosa post-pandemia. Questo ha inciso aumentando i costi per il Comune per spese energetiche e opere di cui è committente.

La guerra Russia-Ucraina ha aggravato il quadro e il 2022-2023 rischiano di essere anni problematici per i costi energetici che si aggiungono alle difficoltà economiche che molte persone e molte famiglie stanno vivendo sulla scia degli effetti che la pandemia ha avuto su occupazione, redditi da lavoro, marginalità sociali. Una situazione che già sarebbe oggi tutta da discutere, con i soldi del PNRR che finiscono nelle inutili opere olimpiche anziché per ristrutturare la sanità pubblica o realizzare sul serio la transizione ecologica. Come possono essere sostenibili i costi olimpici in questo contesto e in una città dove tutte le statistiche e le ricerche indicano come siano crescenti tasso povertà, disagio, esclusione sociale e abitativa? Chi finanzierà i 250 milioni che mancano e chi pagherà se il problema continuasse anche nei prossimi anni e il buco resta? E quali impatti avrebbero i costi che le Olimpiadi genereranno sicuramente al Comune di Milano?

Senza arrivare alla sciagura di una Milano come Torino o Atene, messe in ginocchio economicamente e privatizzata del tutto per coprire i buchi di bilancio di costi olimpici, ci sono due immagini iconiche che raccontano la storia delle Olimpiadi restituendo i dati di realtà oltre la propaganda del capitalismo più rapace e dei suoi sponsor politici: gli ex villaggi olimpici di Atene e Torino abbandonati e divenuti rifugio per gli esclusi, le classi marginali e i rifiutati dalle città che sognavano la modernizzazione garantita dall’iper-sviluppo accelerato del grande evento, finendo invece in crisi di astinenza e overdose da debito esplosi come una bolla e lasciando tutti più poveri. Entrambi bollati come luoghi di “degrado urbano”, non hanno nemmeno potuto espiare la loro colpa originale con una funzione collettiva reinventata e imposta dal bisogno tramite una autogestione fragile, contraddittoria, tutt’altro che ideale ma che avrebbe invece richiesto un riconoscimento di quella necessità sociale cui gli insediamenti spontanei hanno risposto. Milano non ha certo bisogno delle Olimpiadi 2026 per diventare una città escludente, ma il bisogno di capitali costanti delle rendite immobiliari e della borsa dei diritti edificatori – la città finanziarizzata in ultima istanza – rischia di aumentare ancora di più i divari. Quello da contrastare è che le Olimpiadi diventino un’ulteriore ipoteca per molti e molte rispetto all’affermazione del diritto alla città e al soddisfacimento del diritto all’abitare.

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