Liberiamo tutto. Una risposta alla proposta politica del Leoncavallo SPA

L’occupazione del “Pirellino” di Coima, durante la manifestazione 6 settembre

Il direttivo del Leoncavallo SPA ha condiviso una lettera pubblica per invitare i movimenti, l’associazionismo, gli spazi occupati a un’assemblea mercoledì 22 ottobre in cui illustrare la propria proposta per il futuro dei centri sociali. Un testo che presenta con toni generali la legittima necessità di trovare una soluzione di sopravvivenza dopo lo sgombero subito, presupponendo che la modalità scelta per farlo avrà un impatto necessariamente positivo sugli spazi sociali, occupati o meno, della città. Riteniamo i contenuti e le argomentazioni esposte un pesante passo indietro rispetto alle mobilitazioni degli ultimi due mesi e in particolare l’esplosione di un movimento di massa contro il genocidio a Gaza e in Palestina da parte dello Stato sionista di Israele.

Anzitutto, dovremmo chiarire che non riteniamo che il Leoncavallo abbia alcuna auctoritas che lo autorizzi a parlare a nome della moltitudine antagonista o della società civile critica di questa città – e di questo Paese. Infatti, leggiamo come finalità quella di “compiere ogni passo necessario per assicurare al Leoncavallo e a ogni altro spazio autogestito il diritto d’esistenza e di agibilità politica”. Questo è precisamente il primo problema: se è vero, come viene detto più avanti, che non esiste “una strada privilegiata da percorrere al fine di difendere i Centri sociali e di crearne tanti altri”, non pensiamo nemmeno che questo significhi che il fine giustifica ogni mezzo – e soprattutto che, qualunque mezzo si scelga, il fine dichiarato non ne venga intaccato. Per cui la strada scelta dal Leoncavallo per ritornare in via Watteau non riteniamo abbia un valore generale e valga come possibile modello per tutti. Se si vuole intraprendere un percorso costituente che inauguri una nuova fase storica di movimento, nei limiti in cui questa possa essere “pianificata”, allora forse sarebbe importante uno spirito maggiormente collegiale e autocritico.

In secondo luogo, mettere sullo stesso piano la combinazione di mezzi e strumenti molto diversi – l’occupazione di spazi privati, l’occupazione di spazi pubblici, la donazione, il comodato gratuito, l’affitto, l’acquisto – con forme giuridiche profondamente differenti – informale, associazione, cooperativa, società di mutuo soccorso, spazio pubblico autogestito, srl sociale, fondazione – significa confondere contesti e storie. Non si può fingere che un bando sia sempre e solo un bando, che una donazione sia sempre e solo una donazione e così via. Attenzione: non stiamo parlando della regolarizzazione, su cui non abbiamo nessun tipo di remora morale rispetto a chi decide di perseguire quella strada; facciamo riferimento però alle condizioni concrete e ai soggetti a cui ci si rivolge e che determinano se si può trattare di una soluzione strumentale o invece del preludio all’integrazione e al disarmo verso lo Stato di cose presenti – e le forze di mercato che lo dominano.

Che tipo di sussidiarietà positiva si può produrre in una città come Milano, governata da una classe dirigente economico-politica che, dopo la mobilitazione del 6 settembre e gli scioperi generali del 22 settembre e 3 ottobre, ha scelto di perseguire la propria strada di conservazione neoliberista, ipocrita e classista? Non si può fingere che, dopo 15 anni che già basterebbero a rifiutare ogni opzione collaborativa, non ci siano stati i voti a favore della svendita di San Siro (una delle più grandi operazioni speculative contro la Città pubblica e i suoi abitanti) e per il mantenimento del gemellaggio con la capitale di uno Stato genocida (quindi ponendosi contro il più importante movimento sociale e giovanile esploso in città dai tempi prima della pandemia).

Non è un caso che il documento politico non faccia nessun accenno a queste due tematiche fondamentali. Così come non spende una sola parola per la critica delle Olimpiadi invernali prossime venture né per parlare della questione centrale del diritto alla casa negato nel territorio metropolitano milanese: tema direttamente collegato alla geografia del potere reale della città, in mano a quei padroni contro cui abbiamo manifestato il 6 settembre scorso, e che non può essere trattato separatamente da qualsiasi discussione sul ruolo dei centri sociali.

Perché la proposta politica sottesa alla lettera del Leoncavallo non riguarda nemmeno solo gli spazi sociali e le forme possibili dell’autogestione in città. Sarebbe riduttivo pensarlo. Quella proposta politica riguarda invece le forme dell’abitare la città nel suo complesso, della produzione dello spazio urbano – di chi lo determina, lo comanda, ha diritto di intervento al suo interno. Nessun feticcio muove le nostre parole: i centri sociali sono una forma dell’organizzazione e dell’autorganizzazione politica radicale, antagonista, nati in una determinata congiuntura storica e che non è detto debbano essere eterni nelle loro caratteristiche – d’altronde, come era inevitabile, sono già cambiati parecchio da 50 anni a questa parte. Però crediamo che la loro reinvenzione, che ha a che fare con il nostro futuro, debba essere parte di una libera discussione collettiva dal basso sulla ridefinizione di una nuova idea rivoluzionaria di città, che non può adagiarsi sugli strumenti esistenti, prodotti dal potere: quindi non tanto “ostativi” o “in competizione” con esso, ma con progetti di liberazione di quartieri, territori, spazi e ambienti si.

Gli scioperi generali e le mobilitazioni per la Palestina ci hanno insegnato – o meglio ricordato – che bloccare tutto è possibile. Ma ciò che ci chiedono la Palestina e tutti i movimenti decoloniali – e la lotta contro il patriarcato con essi – è di liberare noi stessi. Quindi, piuttosto che costringere quello spirito di rivolta generale nello spazio ristretto di soluzioni personali per vertenze individuali, rilanciamo con un passo avanti: dopo il “blocchiamo tutto”, liberiamo tutto.

Milano, Stazione Centrale: sciopero generale del 22 settembre per la Palestina