Quella che stiamo vivendo deve diventare l’epoca dell’ostinazione. E’ proprio quando la reazione si impone in una qualunque delle sue possibili forme (e i nostri sono sicuramente tempi reazionari), è nelle fasi eversive che vanno bruciati i ponti e rifiutati tutti i compromessi.
Prima di proseguire, una precisazione terminologica: l’ostinazione, per dirla con Ermanno Rea in Mistero napoletano, “è difesa a oltranza di qualcosa. Generalmente di principi: non conosce perciò compromessi. Per l’ostinato la vita è una trincea da non abbandonare a nessun costo; è rifiuto. Anzi, è il rifiuto elevato a paradigma esistenziale, a ricerca di una possibile bellezza del mondo al di là delle degradate forme in cui tende a cristallizzarlo il potere. Qualunque forma di potere”. L’eversione, invece, è cosa ben diversa dalla sovversione: questa è fenomeno sociale che nasce dal basso, dalle classi subalterne, indica una spinta proveniente da chi sta in basso, appunto, verso chi sta in alto, per farlo cadere e ribaltare – o distruggere – le gerarchie sociali e di potere; l’eversione è invece carattere proprio delle classi dirigenti, nasce in seno a esse come rifiuto delle regole del gioco stabilite fino a quel momento da loro stessi, perché il privilegio si sente minacciato e denuncia questo pericolo – reale o percepito – come usurpazione di un presunto diritto naturale. Il risultato, per sintetizzare e semplificare, può essere spesso il fascismo.
Ora, può apparire controintuitivo o “settario” dire che in tempi critici dobbiamo essere ostinati e rifiutare compromessi. Ma non è regalando consenso e potenziale rabbia e odio sociale a quella parte di classe dirigente, e relativa opinione pubblica, che si trova ora all’opposizione dell’eversione che si potrà trasformare la sconfitta in vittoria e conquistare spazi di parola completamente nuovi. La storia dei fascismi e dell’eversione autoritaria delle classi dirigenti crediamo ci dica proprio questo: il vecchio, che ha preparato il terreno al mostro della paranoia e della morbosità poliziesca e suprematista, deve morire con esso; accettare il trasformismo velato di progressismo dei governanti di ieri significa condannarsi alla irrilevanza e abdicare a ogni reale potenzialità di trasformazione e rottura, se non rivoluzionaria.
Un esempio attuale: i quasi 12 milioni di voti abolizionisti (scesi a 9 per quanto riguarda il quinto quesito per dimezzare i tempi di richiesta della cittadinanza) ai referendum dell’8-9 giugno rivelano un potenziale blocco sociale e politico (di cui molt* di noi in quanto precar*, sfruttat*, migranti o “Seconde generazioni” fanno già parte), impossibilitato a esprimersi a livello istituzionale e sul piano della rappresentanza politica e sindacale. Un paio di dati per inquadrare il contesto: dal 1995 solo una campagna referendaria abrogativa ha superato il quorum: quella benecomunista del 2011; rispetto alle altre nove, l’affluenza raggiunta dell’ultimo referendum, grazie anche alla spinta della campagna governativa pro astensione, è il terzo miglior risultato (il migliore dal 2000). I lavoratori dipendenti, coinvolti più direttamente dai quesiti, sono 16,5 milioni, mentre si stima che siano 3,5 milioni a non godere del diritto al reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Oltre 14 milioni di cittadini si sono recati alle urne e al netto dell’inutile dialettica partitica interna al Parlamento e salotti televisivi, il voto ha manifestato la presenza di un’utile massa critica che, in particolare nella sua componente ultramaggioritaria che ha votato per il “SI”, non ha intenzione di delegare la propria vita alle pretese di ceti dirigenti di partito e sindacato e, soprattutto, padronato aziendale.
Una massa che, pur avendo colto la possibilità di abolire norme discriminatorie e vessatorie, non può però rimanere bloccata negli angusti spazi del solo voto. Accettare e normalizzare l’appropriazione che di quella volontà tenta di fare il Partito democratico e un certo establishment liberale, assieme al populismo post-grillino dei Cinque stelle, significa rilegittimare chi quelle leggi ingiuste le ha approvate oppure non le ha abolite quando ne ha avuto la possibilità; vuol dire accettare il piano meramente elettoralistico senza politica del conflitto della vertenza rappresentata nei quesiti referendari, insufficienti e parziali quanto vogliamo, ma densi di rivendicazione e potenziale radicalismo. Ciò che proprio i partiti e la CGIL hanno provato a depotenziare e deconflittualizzare con un sostegno tardivo e opportunistico. Lo stesso, identico, cinico giochino con cui Elly Schlein e Giuseppe Conte hanno tentato di tradurre in termini di mero consenso verso sé stessi il genocidio di Gaza, con una presa di posizione limitata e tardiva, priva del punto di vista palestinese semplicemente perché trattavasi di una convocazione (quella del 7 giugno) avente l’obiettivo (o l’effetto ovvio, a voler concedere il beneficio del dubbio) di depalestinizzare il movimento di solidarietà con la Palestina, rimuovendo gli elementi di lotta di liberazione e resistenza contro Israele, in favore di parole d’ordine che legittimano alla base il progetto di colonialismo di insediamento dello Stato sionista.
D’altronde, già qualcuno, tanti anni fa, ricordava che l’indifferenza è “abdicazione della massa degli uomini alla propria volontà”, che “lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che solo un ammutinamento potrà rovesciare” (si chiamava Antonio Gramsci e scriveva queste parole l’11 febbraio 1917). Ma attenzione: l’indifferenza non va letta tanto nell’astensionismo a questo voto, che caso mai ne è il risultato (anche se, con buona pace di tant* compagn* non votanti per scelta, la massa di chi non si è espresso lo ha fatto precisamente per individualismo, razzismo e per identificazione delle proprie sorti con quelle del padronato, in perfetto ossequio all’antropologia neoliberista costruita sulle macerie sociali e relazionali lasciate da un intenso processo di desolidarizzazione interno alla società). L’indifferenza è arrivata prima, molto prima, con un movimento passivo molto più trasversale di quanto voglia ammettere anche la buona coscienza perbene di quel ceto medio che, seppur “anti-meloniano”, sogna ancora come modello alternativo alla remigrazione della Lega una integrazione subalterna dei non-bianchi e dei loro figli, nipoti e delle generazioni che verranno. L’indifferenza è stata quella di chi ha applaudito alle “riforme innovative” che introducevano precarietà e povertà strutturale nei redditi da lavoro, di quei sindacalisti che accordavano contratti “atipici” per fasce crescenti di lavorator*, divenuti poi maggioranza. L’indifferenza è quella che nella “democratica” Milano ti propone aperitivi alla moda accanto al lager-CPR di via Corelli o alle file chilometriche fuori dagli Uffici immigrazione delle questure e rende inaccessibile la casa a chi risulta non conforme per il mercato immobiliare meneghino e per sedere alla tavola del “welfare di Comunità” apparecchiata spesso proprio dai padroni che si spartiscono la città pubblica, serviti dai maggiordomi della giunta Sala.
Se sbagliamo prospettiva, ci confondiamo nella nebbia dell’opportunismo che ci rende incapaci di riconoscere le condizioni di partenza del mostro e le responsabilità politiche che lo hanno generato; rischiando di mancare una nuova, prossima opportunità, ancora di là da venire ma che arriverà, di compattare un blocco sociale di subaltern*, potenzialmente omogeneo, attraverso la sua rabbia e il rifiuto di ogni compromesso, per ricostruire invece qualcosa di nuovo dopo aver abbattuto il mostro e la società che lo ha rigurgitato in quanto “barbarie non digerita” tutta di marca genuinamente occidentale ed europea.


