La Sharing Economy e i nuovi paradigmi economici emersi nel cuore della crisi sono diventati argomenti “cool” e cogenti, sui quali vale la pena aprire un percorso di riflessione e dibattito.

Abbandonando temporaneamente Charles Sanders Peirce e la semiotica interpretativa, emerge l’esigenza di scandagliare la sostanza di queste pratiche economiche, da qualcuno definite “lavoretti” e da qualcun altro meccanismi di produzione di profitto, fuori dal funzionamento dell’ordinamento socio-economico tradizionale.

Osservando l’universo della new economy, la prima questione rilevante riguarda la comprensione delle logiche e degli obiettivi di questo modello economico, mettendole in relazione al sistema capitalista sul quale si fonda. Le principali aziende, alcune delle quali nate come start up, si occupano di rendere più semplice la realizzazione del processo, ovvero il consumo di merce: in altre parole, esse lavorano sulla definizione di nuovo stili e bisogno di consumo, quindi di una nuova domanda che sostenga il mercato. Sin dalle origini anche questo paradigma si caratterizza per l’abilità di abbassare il costo del lavoro, aumentare il peso della promozione pubblicitaria, vendere merci e stili di vita (smart). Non secondaria è l’attitudine a selezionare un target di consumatori appartenenti al ceto medio/alto (con fughe a caccia dei ceti inferiori) attraverso la creazione di incentivi al consumo. A nostro parere, tra le pratiche di Sharing Economy, la più aggressiva è quella appartenente al campo della cosiddetta “food economy”.

Nei mesi scorsi, prima Deliveroo e UrberEats a Londra, poi ancora Deliveroo a Parigi e Foodora a Torino (ed a latere a Milano) han dato notizia di sè a causa delle manifestazioni di protesta dei lavoratori contro le proprie condizioni di lavoro.

Manifestazioni da un lato comunicative, ed in grado di “fare notizia”, ma dall’altro canoniche (es. blocco del servizio attraverso sciopero -non convenzionale va detto- e volantinaggio). La stampa ha descritto questi eventi come “primo sciopero dei millennials e della generazione gig economy che si attiva”. A queste manifestazioni sono seguite una serie di considerazioni, molte delle quali valide e di indubbia utilità, partorite dai nostri “soliti giri”, che da tempo attendevano un segnale dal mondo reale da cui ripartire. Tale segnale sembra essere proprio arrivato da quell’ambito di lavoro senza tutele e con salari minimi su cui da tempo era stato concepito un ragionamento, bloccato subito dopo le giornate anti austerity del biennio 2010/2011.

Il rumore derivato da queste prime proteste, col passare dei giorni, si è affievolito. La vertenza stessa, nata di seguito a questo momento importante di attenzione, è in una fase di stallo. A questo punto, occorrerebbe ragionare su una serie di temi utili a riaprire il dibattito. Su questo, però, il nostro laboratorio è per sua costituzione costretto a fare un passo indietro, non avendo e nemmeno rivendicando una natura sindacale. Ciò che invece ci è parso utile affrontare, per favorire il dibattito sul tema, è l’approfondimento sul lavoro vero e proprio del rider: l’obiettivo del laboratorio è stato quello di scandagliare una giornata tipo di due rider di foodora, per avere una simulazione realistica di ciò che accade durante uno slot di lavoro..

Quanto guadagna il rider e quanto guadagna l’azienda?

Come ragiona l’algoritmo, quali rischi rimangono interni al profitto dell’azienda e quali rimangono interni al profitto del rider?

Chi sono i consumatori?

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