Il diritto alla città pubblica.

Lo scorso 17 ottobre siamo stati ospiti di una giornata dedicata al Diritto alla Città. Il nostro contributo (qui in originale) sarà pubblicato nel catalogo del mese del MACRO.

Il diritto alla città pubblica.

Da Lefebvre ad Harvey con raccomandata di ritorno: il caso Milano.

Il primo elemento d’interesse del Diritto alla città è legato all’opportunità, che questa chiave interpretativa del fatto urbano offre, di chiarire un equivoco senza tempo: gli attivisti, i gruppi, le coalizioni sociali che si battono nell’arena cittadina non hanno velleità di muovere “contro” la città, piuttosto dentro un perimetro definito da densità di azioni, relazioni e contraddizioni. Dunque all’interno di questa cornice teorica anche la lotta politica, nel suo riconoscere la presenza di vita all’ombra di architetture e sottoservizi, assume il valore di una dichiarazione d’affetto per quegli spazi che, attraverso la produzione di vita e l’esercizio della prossimità, assumono il tenore di luoghi.

Il Diritto alla città è d’altronde irriducibile alla vertenza per l’ampliamento (fondamentale, attenzione!) della sfera dei diritti e dell’accesso a informazione, democrazia e commons. David Harvey, esponente contemporaneo di questa tradizione, è il cantore delle rivoluzioni urbane: nella sua geografia radicale la città assume le fattezze di un territorio in cui alla densità materiale e immateriale dei flussi, corrisponde quella delle frizioni e dei conflitti. Occorre però risalire alle origini del filone di riflessione teorica con la pubblicazione de Le droit à la ville, scritto pochi mesi prima del maggio francese, per riabilitare gli aspetti meno noti del pensiero di transizione, tra accademia surrealismo e situazionismo, di Henry Lefebvre.
Il Lefebvre dimenticato suggerisce l’esistenza di una evidente contrapposizione tra l’opera e la festa: da una parte lo spazio della produttività al servizio del capitale, dall’altra il tempo dell’otium creativo. La prima condizione è generatrice di consuetudini, e proprio dalla coazione a ripetere di abitudini, comportamenti e ruoli sociali, germina naturalmente la noia. Sull’altro versante di questa dicotomia si pone l’uso creativo del fatto urbano, inteso come utilizzo non convenzionale del luogo ed espressione di una capacità immaginativa diffusa.

Con queste lenti indosso è nato nel 2012, sulla scorta di altre esperienze maturate negli spazi sociali di Milano, il Laboratorio Off Topic. Con all’attivo due libri, due giochi da tavolo autoprodotti, e ancora performance, opuscoli e centinaia di attività alle spalle, quello di Off Topic è stato sin qui, col miraggio della città pubblica nel cuore, un osservatorio severo nei confronti della distopia di una Milano che da città “si fa” metropoli.

Per diversi anni abbiamo misurato consistenza e diffusione di questa mutazione genetica, da città industriale a metropoli globale, attraverso la disamina dei progetti che hanno trasformato le ex-aree industriali (da Porta Nuova a Maciachini, e da Citylife alla Bovisa) in nuove centralità, poli d’eccellenza, espressioni in vetro-cemento delle nuove funzioni urbane. Con l’approssimarsi del 2015 divenne Expo la keyword più efficace per descrivere un processo di rigenerazione diffusa e liquida che tracimava la spazialità del sito espositivo per aggredire le maglie del diritto, il sistema di governance metropolitana, e spostare l’asticella dell’appetibilità turistica e internazionale di Milano. La coda lunga di quell’esperienza, ben più della dubbia legacy (sia in termini di indotto che di posti di lavoro) è una giostra di eventi all’insegna del food, festival ricorrenti, settimane tematiche, che tradiscono una produzione bulimica e incontrollata di fatti culturali. Lo schema ricorrente è semplice e rodato: si apre con un annuncio in grande stile che vede sotto i riflettori la politica, il personaggio, gli influencer e la corte di sponsor. Fase due: l’ansia dell’attesa, le prime anticipazioni, l’effetto “nuova stagione”. Fase tre: la bolla delle aspettative cresce, si gonfia, esplode in un’attività che brucia rapidamente perché l’attenzione dei media e degli “utenti” che compulsano sui social è già altrove, ben prima che qualcuno tiri via le cartacce dal palco. Il meta-racconto di questo ritmico palinsesto, condannato a crescere per vocazione, condannato a deludere in attesa del definitivo “wow effect”, si è slacciato da tempo dalla nostra capacità di assimilare, godere, empatizzare. Su questo tema tornerò in chiusura, prima vorrei restituire una cartolina utile a ricostruire il legame tra l’affresco di Milano nel 2030 (recentemente presentato dalla giunta) e la concretezza dei nuovi grandi progetti che si apprestano a cantierizzare la città ambrosiana.

Lo scorso maggio la giunta cittadina ha presentato alla città Milano 2030: la vision di lungo termine che affianca la produzione del nuovo Piano di governo del territorio: rigenerazione urbana, mobilità leggera, sostenibilità, aria pulita…manca la pace nel mondo. Non conosco (quasi!) nessuno che storcerebbe il naso di fronte ad una prospettiva di tale bellezza ed equità sociale. Qual è il problema? Il problema sta nel gap tra la promessa e il dato di realtà, un po’ come quello che oggi separa, a Milano, il mercato immobiliare del centro città (dove i nuovi cantieri non scendono sotto la soglia dei 10.000 euro/mq) e le 25000 persone da anni in lista d’attesa per una casa popolare. Il problema si scorge nel progetto Reinventing cities, anima nobile del cartello di città globali resilienti C40 e, secondo uno sguardo più severo, progetto di greenwashing che porterà alla svendita di cinque aree di proprietà pubblica di grande pregio. Il problema emerge quando i sei scali ferroviari, un unicum forse in tutta Europa, sono considerati dal Comune stesso una proprietà privata delle Ferrovie (a cui erano stati ceduti dal demanio per espletare una funzione pubblica e non come asset societario privato). Ancora un problema è rappresentato dal “Progetto navigli” che, con le radici piantate in una pur piacevole riapertura di un tratto degli storici canali meneghini, giustifica una ingente e non prioritaria spesa pubblica attraverso il “metodo dei prezzi edonici”, o, in altre parole, con l’apprezzamento del valore immobiliare a beneficio dei proprietari del centro storico. Infine, magari fosse l’ultimo, un problema è rappresentato dalla continua cessione di patrimonio pubblico a fondi di investimento e banche per finanziare la spesa corrente.
Milano è più bella e non sta mai ferma. C’e del vero. Però Milano deve scegliere se guardare anzitutto ai suoi abitanti, a chi l’attraversa per studio e lavoro, a chi attende la chance di riscatto nei comuni di prima e seconda cintura, o se, affianco all’inevitabile mutazione dell’urbano, sia socialmente accettabile una mutazione del cittadino in utente e quindi in cliente. Le periferie sociali, la sperequazione delle politiche pubbliche, l’inquinamento che ci attanaglia, raccontano un fallimento diverso dall’immobilità: il combinato disposto di mancati trasferimenti, timidezza delle amministrazioni locali e protagonismo del privato, stanno consegnando la città in mano a nuovi decisori. Come impedire dunque la squalifica dei soggetti che non rientrano nel disegno dell’attrattività turistica internazionale?

Qualche settimana fa, in difesa dell’esperienza di Macao, scrivevamo:
“La città, fatevene una ragione, non è fatta solo di vuoti e di pieni, di giustizieri e mascalzoni, di guardie (a difesa della proprietà) e di ladri. Mentre la città esclusiva è per definizione escludente, la città che conosciamo e attraversiamo vive di zone di confine: margini geografici e “posture sociali” irriducibili ai concetti di decoro, legalità, giustizia…alla vostra stessa idea di bellezza”.

Prendiamo l’esempio tutto milanese della smartcity: zona comfort dell’abitare 2.0 o disinvolta cessione di dati utili ad una sempre più precisa profilazione sociale? Milano è già il laboratorio italiano dell’accumulazione originaria di cognizione dei nostri comportamenti. Questa conoscenza, nel contesto della gig economy, è necessariamente orientata alla produzione di nuovi bisogni/consumi e altrettanto necessariamente è laccata da un’estetica suadente, ammiccante e perniciosa. Non vi è alcuna apertura né democrazia nella logica dell’algoritmo che un giorno squalifica il fattorino che non prende la comanda, l’altro vende al miglior offerente la conoscenza acquisita sui nostri comportamenti di ogni giorno.
La metafora della gig economy suggerisce che nuove periferie della cittadinanza stanno prendendo forma e illustra l’urgenza di minare le sue black boxes. Abbiamo urgenza di una nuova cognizione di come funziona, di come “si fa” o “si agisce” la città. Un nuovo protagonismo delle arti e dei mestieri, dell’attivismo e dell’uso non convenzionale degli spazi, la riappropriazione del tempo destinato al lavoro, sono tutte tappe ulteriori di questa forzatura. La città che conosciamo non è inevitabile né desiderabile. Non per tutti almeno. Diritto alla città oggi significa nuovamente capacità immaginativa, diritto allo spazio pubblico, cassetta degli attrezzi e ribaltamento del taccuino degli stakeholders.

Ricordate la sussunzione che della festa hanno fatto gli amministratori di eventi metropolitani? Ecco, tornare a far festa, di questo c’è bisogno. L’agenda riparta dalla città viva piuttosto che dalla normatività, produca relazioni di prossimità e valore per tutti, che non coincide, e mai coinciderà, con la ricchezza di alcuni.